Ciao a tutti, ho trovato questo articolo e mi e' sembrato molto bello e molto positivo, ho pensato di inserirlo qui per condividerlo con voi
in bocca al lupo a tutti!
Che bella bambina. è sua figlia, signora?”. Era bastata la domanda di un funzionario aeroportuale a tagliarmi il respiro. L’attacco di panico che ero riuscita in qualche modo a domare durante il volo di rientro da Kiev era lì, pronto a scatenarsi. Poi un’occhiata alla lunga fila era bastato a convincerlo: ci aveva fatto passare senza insistere. Certo che era nostra figlia, Francesca. Figlia di una maternità inseguita per 15 anni a costo di cure dolorose, tentativi estenuanti col calendario alla mano, aborti ripetuti che ti si conficcano nel cuore oltre che nella carne, nell’attesa che un miracolo della provetta esaudisca le tue preghiere.Una figlia che a 43 anni suonati io e mio marito non saremmo mai riusciti ad avere senza l’aiuto di Ljudmila, la giovane donna che ha portato in grembo la nostra bimba per nove mesi e l’ha partorita.
Per definire ragazze come lei qualcuno usa parole tipo madre surrogata, utero in affitto, come se dietro a quegli organi non ci fossero volti, persone, storie. La legge italiana ricorre ai divieti. Io riesco solo a pensare all’enorme dono che questa ragazza ci ha fatto: 26 anni, già mamma di Vlady, sposata con un impiegato, Ljudmila ha scelto di affrontare questa esperienza per regalare al suo piccolo un po’ di sicurezza in più. Il compenso per questi nove mesi (circa 20mila euro) lo destinerà all’acquisto di un monolocale da intestare a lui. Una scelta che pare sia abbastanza comune tra le giovani ucraine, reclutate in gran numero dalle cliniche di Kiev, che mi ha ricordato quello che un tempo da noi succedeva con le balie.Del nostro incontro, poco prima del parto, conservo emozioni che non è facile descrivere: impacciate dalla babele linguistica (c’era anche un’interprete), ci siamo guardate come se ci riconoscessimo e abbracciate a lungo, commosse e un po’ confuse.
Poi lei mi ha preso la mano e l’ha appoggiata sul pancione dove stava crescendo Francesca, concepita con uno dei miei ovuli e col seme di mio marito: la figlia che io non avevo potuto portare in grembo, per colpa di un intervento all’utero finito male, molti anni prima. A Ljudmila avrei voluto raccontare di come mi sono sentita quando abbiamo ricevuto la prima ecografia con il profilo della piccola in chiaroscuro. Della notte in cui mi sono svegliata per quei calci che - contro ogni logica - avevo sentito nella pancia. Delle mie ansie, quando controllavo le temperature di Kiev e mi chiedevo se lei fosse abbastanza coperta, se avesse fatto colazione, se avesse finalmente smesso di andare in bicicletta. Di quanto avevo invidiato le sue nausee, il corpo che cambiava. Di quella fitta di gelosia che non sapevo come scacciare.
Ma di quei nove mesi vissuti col pensiero fisso a duemila chilometri di distanza non sono riuscita a dirle nulla. Avevo scritto tutto in una poesia che le ho infilato in tasca. Lei invece ha subito voluto rassicurarmi: “Tranquilla, va tutto bene. Io l’ho fatto per il mio bambino, tu per la tua”.
Era tutto così semplice, visto con i suoi occhi. Nata in una famiglia numerosa, Ljudmila aveva vissuto le mille difficoltà che sette fratelli e magre risorse portano con sé. Per questo aveva giurato a se stessa che il suo bambino sarebbe rimasto figlio unico, anche se la sua nuova famiglia era più che benestante. Aveva amato la maternità. Ma un secondo figlio non voleva allevarlo. Una decisione che non si è incrinata nemmeno per un attimo: due giorni dopo il parto ha firmato al volo gli ultimi documenti con i quali io e mio marito siamo diventati genitori di Francesca a tutti gli effetti, secondo la legge ucraina. Poi ci ha salutato, scappando via con la sorella senza voltarsi: Vlady la stava aspettando.
D’improvviso eravamo solo noi tre: una famiglia. Dopo gli ultimi controlli Francesca era stata dimessa e ci eravamo ritrovati con la bimba tra le braccia, travolti dalla felicità ma anche impacciati, frastornati. Grazie a dio l’organizzazione della clinica aveva previsto un paio di settimane di soggiorno in un residence lì vicino, per darci il tempo di imparare a destreggiarci tra poppate e pannolini, fare le ultime visite pediatriche. Di quei giorni ho ricordi magnifici e poco lucidi: l’emozione del primo biberon, lo sguardo da latte - trasognato e appagato - della nostra bambina; il primo cambio incerto, con mille salviette; l’intimità del lettone, la mattina.Felicità subito incrinata dai primi contatti con la burocrazia nostrana, al consolato di Kiev, che ci aveva fatto sospirare a lungo la traduzione dell’atto di nascita di Francesca, regolarmente rilasciato dalle autorità locali.
Eppure non stavamo facendo nulla di illegale: dopo il disconoscimento firmato da Ljudmila, per la legge ucraina gli unici genitori eravamo io e mio marito. Ma al consolato ci avevano avvertito: il nostro caso sarebbe stato segnalato alle autorità aeroportuali italiane, oltre che al nostro Comune. Ecco perché avevo il cuore in gola all’arrivo a Roma: il mio incubo era quello di essere separati alla dogana, come pare sia capitato ad altre coppie. Le domande di quel funzionario solerte ci avevano fatto sentire ladri di bambini, rapitori di neonati, mentre eravamo semplicemente vittime di una tra le norme più severe dei paesi occidentali: la legge 40.Io e mio marito non smettiamo di chiedercelo. Come può un legislatore entrare tanto pesantemente in uno degli spazi più intimi e privati della vita di una famiglia? Avremmo preferito mille volte fare tutto alla luce del sole, qui nel nostro paese.
Eravamo pronti ad affrontare incontri con psicologi, assistenti sociali, come nel caso dell’adozione. All’espatrio siamo stati costretti. Era il nostro ultimo treno, dopo anni di tentativi. Per fortuna all’anagrafe del nostro Comune (viviamo in Romagna), le cose sono andate meglio. L’atto di nascita è stato trascritto senza obiezioni, e questo ci fa sperare che nessuno voglia rimettere le cose in discussione. Ora che Francesca sta per compiere cinque mesi, i suoi occhi chiari ricordano sempre più quelli del padre, le sue dita lunghe e affusolate quelle della mia famiglia. Non c’è stato neanche un attimo in cui non l’abbia sentita mia figlia, da quando ci hanno mandato i primi test positivi sul sangue di Ljudmila. Nel frattempo le foto sul suo album aumentano. Gli scatti con le sue mille espressioni, le prime pappe, l’incontro con i nonni, i cugini, si aggiungono alle ecografie refertate in lingua ucraina, alle immagini della clinica di Kiev, dei suoi medici, delle sue infermiere, delle altre neofamiglie italiane incontrate nel residence ucraino.
Manca solo quella di Ljudmila. I nostri incontri sono stati così brevi che non abbiamo fatto nemmeno uno scatto insieme. Magari proverò a scrivere alla clinica...
Ma non ci saranno misteri, nessuna bugia sulla storia della sua nascita. Vogliamo che Francesca cresca nella consapevolezza di essere una bambina speciale, voluta dalla tenacia e dall’amore grandissimo dei suoi genitori, ma anche dalla generosità di una ragazza lontana, che l’ha ospitata per 9 mesi nella sua pancia accogliente.
Appena tornerà la calma in un Paese dai confini e padroni sempre meno certi, torneremo a visitare Kiev con Francesca. Nostra figlia, senza nemmeno un dubbio.
Essere una surrogata
Tutto così semplice. A questo punto era forte il bisogno di ascoltare la voce di una donna come Ljudmila, di conoscere i pensieri di chi per nove mesi sente crescere dentro di sè un figlio che non sarà mai suo. E poi c’era la storia di Crystal Kelley, l’americana che due anni fa aveva rifiutato di abortire e ha dato alla luce una bambina gravemente handicappata, contro il volere dei genitori con cui aveva stipulato il ferreo contratto di surrogacy.
“Non potrò mai rinunciare a te”, scriveva Crystal nel blog dedicato a Baby S, appena diventato un libro, Fire Within. Invece non ce l’ha fatta. E ha dato la bimba in adozione.
Insomma, sono faccende che aprono molte crepe emotive, ci siamo dette in redazione. E per capirne di più abbiamo intervistato Jessica, giovane californiana che l’anno scorso ha dato alla luce Baby Lee per conto di una coppia di Hong Kong.