Cosa vuol dire desiderare un figlio nell’epoca della sterili
Inviato: 17 dic 2015, 12:05
Da anni non si assisteva a una discussione così radicale e impetuosa fra donne che sono abituate a ragionare in termini storici ed etici sul destino del proprio corpo. Ecco la parola chiave, DESTINO: si diventa madri per destino o per scelta? È la stessa domanda chiave su cui si è ragionato e discusso, ma civilmente, al tempo della legalizzazione dell’aborto. C’è chi crede e rivendica l’idea che la maternità sia un fatto prima di tutto mistico, una sorte spettante per fatalità naturale al corpo femminile, ma (spesso paradossalmente) guidata e sancita da leggi decise in maggioranza da uomini. C’è invece chi sostiene che la maternità, come la paternità, sono creazioni prima di tutto culturali, modi di costruire la vita che mutano secondo i grandi mutamenti della storia.
Sono state coraggiose le donne di «Se non ora quando-Libere» che per prime hanno lanciato il sasso nel silenzio del Paese. Troppo poco si discute sulle grandi questioni legate alla gestazione: cosa vuol dire desiderare un figlio? È un fatto egoistico o un istinto potente che nasce sì dal bisogno della continuazione della specie ma viene poi interpretato e vissuto in ogni epoca con spirito diverso? E il desiderio di maternità è un fatto esclusivamente femminile o non riguarda anche gli uomini che spesso hanno censurato e represso la struggente e bellissima ambizione alla riproduzione? E ancora: in epoca di sterilità crescente, fino a che punto è lecito covare nel ventre un figlio per altri? Che senso ha nutrire con le proprie linfe piu segrete un corpicino nuovo su richiesta? Come può essere giudicata una donna prolifica che, magari per guadagnare dei soldi, offre a una coppia che non può averne, il proprio corpo materno?
Cos’è che indigna e infastidisce di più in questo nuovo modo di intendere la maternità? Direi sopratutto l’aspetto commerciale. Come si può comprare un figlio? E come si può venderlo, cancellando l’idea antichissima della naturale proprietà materna? Perfino la Madonna che, secondo la narrazione cattolica, ha concepito un figlio per conto terzi — ovvero lo Spirito Santo — l’ha però donato, da accudire, con meravigliosa fiducia e rispetto, al proprio compagno di vita.
In qualche modo la discussione di oggi ricalca le infinite dispute e controversie sorte al tempo della legalizzazione dell’aborto. Ho scritto a suo tempo un libro per spiegare la mia posizione: favorevole alla legalizzazione per togliere la pratica dalla clandestinità, ma contraria a farne una bandiera. L’aborto non può essere una soluzione. Farlo uscire dal buio delle pratiche speculative, bene, ma pensare che sia l’unica risposta a una gravidanza non voluta, non mi convince: si tratta comunque di una violenza verso il nascituro e verso il corpo della donna. La sola alternativa non può che essere una maternità responsabile. Cosa che in parte è avvenuta con la legalizzazione dell’aborto: è stato importantissimo rendere consapevole collettivamente il paese dell’esistenza della pratica, violenta, pericolosa legata all’attività di tanti medici speculatori. Tutti sapevano ma, prima della legge, era una piaga nascosta e tollerata, dopo la legge è diventata una consapevolezza civile.
Oggi ci troviamo di fronte a una questione contraria e opposta: la sterilità sta aumentando, molte coppie vorrebbero un figlio ma non riescono a farlo e allora o adottano un bambino — ma sappiamo quanto è lungo e difficile e tormentoso il processo dell’adozione — oppure cercano una donna prolifica che, liberamente scelga di accogliere il seme dell’uomo e dare alla luce un figlio da donare.
La divisione dei punti di vista all’interno del mondo femminile più consapevole prova che la questione è scivolosa e non facilmente risolvibile. Fino a che punto la maternità è un evento etico oltre che naturale e quando le due cose possono essere separate per ragionamento? Dove comincia la costruzione di un figlio e quali sono i limiti che vogliamo imporci? Mettere a disposizione il proprio corpo per aiutare chi è sterile e desidera un bambino è solo un patto commerciale o può essere anche un modo di condividere le gioie della maternità? Perché troviamo accettabile la donazione del seme paterno e non la donazione di una gravidanza femminile? Non mi avventurerei nello scialo dei termini inglesi che trovo fuorvianti: la gente si confonde fra stepchild adoption, surrogacy, ecc.
Forse non è un caso che la questione sia venuta fuori nel momento in cui si sta per approvare in Parlamento una legge che sancisce gli uguali diritti fra coppie eterosessuali e omosessuali. La questione diventa etica nel momento in cui si tocca la famiglia, o l’idea tradizionale della famiglia, che purtroppo è diventato, per statistica il luogo più pericoloso per le donne e i bambini. Ma c’è chi si oppone con tutte le forze a modificare la nozione abituale di famiglia, chi ha paura che introducendo nuovi modi di convivenza sanciti dalla legge, l’intero sistema di valori esploda e vada in pezzi, lasciando solo macerie sentimentali.
Sono state coraggiose le donne di «Se non ora quando-Libere» che per prime hanno lanciato il sasso nel silenzio del Paese. Troppo poco si discute sulle grandi questioni legate alla gestazione: cosa vuol dire desiderare un figlio? È un fatto egoistico o un istinto potente che nasce sì dal bisogno della continuazione della specie ma viene poi interpretato e vissuto in ogni epoca con spirito diverso? E il desiderio di maternità è un fatto esclusivamente femminile o non riguarda anche gli uomini che spesso hanno censurato e represso la struggente e bellissima ambizione alla riproduzione? E ancora: in epoca di sterilità crescente, fino a che punto è lecito covare nel ventre un figlio per altri? Che senso ha nutrire con le proprie linfe piu segrete un corpicino nuovo su richiesta? Come può essere giudicata una donna prolifica che, magari per guadagnare dei soldi, offre a una coppia che non può averne, il proprio corpo materno?
Cos’è che indigna e infastidisce di più in questo nuovo modo di intendere la maternità? Direi sopratutto l’aspetto commerciale. Come si può comprare un figlio? E come si può venderlo, cancellando l’idea antichissima della naturale proprietà materna? Perfino la Madonna che, secondo la narrazione cattolica, ha concepito un figlio per conto terzi — ovvero lo Spirito Santo — l’ha però donato, da accudire, con meravigliosa fiducia e rispetto, al proprio compagno di vita.
In qualche modo la discussione di oggi ricalca le infinite dispute e controversie sorte al tempo della legalizzazione dell’aborto. Ho scritto a suo tempo un libro per spiegare la mia posizione: favorevole alla legalizzazione per togliere la pratica dalla clandestinità, ma contraria a farne una bandiera. L’aborto non può essere una soluzione. Farlo uscire dal buio delle pratiche speculative, bene, ma pensare che sia l’unica risposta a una gravidanza non voluta, non mi convince: si tratta comunque di una violenza verso il nascituro e verso il corpo della donna. La sola alternativa non può che essere una maternità responsabile. Cosa che in parte è avvenuta con la legalizzazione dell’aborto: è stato importantissimo rendere consapevole collettivamente il paese dell’esistenza della pratica, violenta, pericolosa legata all’attività di tanti medici speculatori. Tutti sapevano ma, prima della legge, era una piaga nascosta e tollerata, dopo la legge è diventata una consapevolezza civile.
Oggi ci troviamo di fronte a una questione contraria e opposta: la sterilità sta aumentando, molte coppie vorrebbero un figlio ma non riescono a farlo e allora o adottano un bambino — ma sappiamo quanto è lungo e difficile e tormentoso il processo dell’adozione — oppure cercano una donna prolifica che, liberamente scelga di accogliere il seme dell’uomo e dare alla luce un figlio da donare.
La divisione dei punti di vista all’interno del mondo femminile più consapevole prova che la questione è scivolosa e non facilmente risolvibile. Fino a che punto la maternità è un evento etico oltre che naturale e quando le due cose possono essere separate per ragionamento? Dove comincia la costruzione di un figlio e quali sono i limiti che vogliamo imporci? Mettere a disposizione il proprio corpo per aiutare chi è sterile e desidera un bambino è solo un patto commerciale o può essere anche un modo di condividere le gioie della maternità? Perché troviamo accettabile la donazione del seme paterno e non la donazione di una gravidanza femminile? Non mi avventurerei nello scialo dei termini inglesi che trovo fuorvianti: la gente si confonde fra stepchild adoption, surrogacy, ecc.
Forse non è un caso che la questione sia venuta fuori nel momento in cui si sta per approvare in Parlamento una legge che sancisce gli uguali diritti fra coppie eterosessuali e omosessuali. La questione diventa etica nel momento in cui si tocca la famiglia, o l’idea tradizionale della famiglia, che purtroppo è diventato, per statistica il luogo più pericoloso per le donne e i bambini. Ma c’è chi si oppone con tutte le forze a modificare la nozione abituale di famiglia, chi ha paura che introducendo nuovi modi di convivenza sanciti dalla legge, l’intero sistema di valori esploda e vada in pezzi, lasciando solo macerie sentimentali.