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Maternità surrogata.

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Maternità surrogata.

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Molti dei documenti che sono usciti in questi giorni, invocando il divieto della gestazione per altre/i (gpa), evocano donne sempre vittime, in paesi diversi tra loro ma tenuti insieme, in quei ragionamenti, dal fatto di essere “paesi poveri”. Ma la gestazione per altre/i, laddove è normata, non avviene così. Implica donne libere, che fanno una scelta consapevole, anche per motivi economici, certo, il che non significa che non sia una scelta. Una delle ragioni che dovrebbero far riflettere prima di invocare il divieto netto della gpa potrebbe essere anzi proprio la preoccupazione che tale divieto, mosso da un’idea di tutela e di rispetto dell’integrità delle persone, non rischi invece di ricacciare questa pratica nel mercato nero e produrre uno sfruttamento maggiore e incontrollato delle donne che la compiono.

È una scelta difficile da capire. Alcune hanno scritto che le fa inorridire, verbo pieno di pathos, che non dovrebbe avere cittadinanza in un dibattito pubblico intorno al legiferare. Molte cose possono fare inorridire ciascuna di noi soggettivamente, ma non per questo, in nome di tale inorridimento, possiamo pensare di farle vietare.

Per esempio, nello spazio dell’inorridimento, potrebbe trovare posto il fatto che una donna abbandoni le proprie figlie/i per andare a badare alle figlie/i di un’altra madre più ricca di lei all’altro capo del mondo.

Ma il punto sta, forse, non tanto nella quantità di possibile dolore o sfruttamento, ma nella sua qualità, che pone molte domande: Fino a che punto è possibile spostare i limiti del desiderio di essere padre o madre? Fino a che punto un desiderio può essere considerato un diritto? E, poi, quali sono i limiti di una persona umana? Che cosa li definisce? È possibile immaginare che il suo corpo sia altro da lei, che lei ne possa disporre, per sua scelta e anche a fronte di un guadagno, senza che ciò intacchi l’integrità della sua persona?

Sono domande immense, e le risposte forse sono ancora in parte introvabili, in modo assertivo e pieno di certezze.

L’allargamento del concetto di maternità, e, di conseguenza, di genitorialità, che si deve alle battaglie femministe, ha certamente portato cambiamenti epocali che ancora stiamo scoprendo con meraviglia. E chi non prova meraviglia al loro cospetto ma si avventa, scure in mano, a decretare ciò che nel loro solco sempre aperto e in movimento è lecito o non è lecito fare, quali sono i confini autorizzati del cambiamento, non solo oppone una stasi arbitraria quanto vana a qualcosa che ancora potentemente si muove e sempre si muoverà, ma forse ne tradisce lo spirito.

In effetti fondare la maternità non nel destino delle donne ma nella loro scelta, nel loro essere profondo, talentuoso, singolare e differente, nelle parole che le donne hanno trovato, pronunciato e gridato, prima fra tutte quel “si” o quel “no”, prima e ultima parola senza la quale non c’è maternità, aver allargato il materno a segno potente e ordinante del mondo, significa aver aperto una nuova strada che non riguarda solo le donne che scelgono di essere madri ma tutte le donne, anche coloro che non lo scelgono; perché sono donne, figlie di una madre, che finalmente conoscono, e nella quale si riconoscono: nella sua potenza simbolica, culturale e umana. Nello specchio della madre ogni donna può riconoscersi e riconoscere la propria storia, in una forma di allargamento di sé e di comprensione e intelligenza dell’altro/a da sé che le è propria, singolare e non ha eguali.
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Re: Maternità surrogata.

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Ma anche ogni uomo può trovare, in questo nuovo spazio di forma delle relazioni, un modello da riconoscere, da cui imparare e di cui nutrirsi, con meraviglia e speranza. Lo vediamo ogni giorno, in padri che spostano, con piccoli atti quotidiani, il modello di paternità.

Il modello, l’esempio del materno, patrimonio delle donne, non è garantito però dalla sola presenza fisica della donna nella genitorialità: può travasarsi nei padri, espandersi e allargarsi, perché la sua forza è molto grande, la sua calamita potentissima e il desiderio che genera negli uomini ne è la conferma. La forza del materno è tale da potersi espandere su tutti, da poter contagiare e allargare i confini.

Perché è forse dentro questo solco aperto dalle donne, in cui la maternità è scelta e non destino, che il desiderio di maternità e di paternità di tutte/i ha preso un nuovo senso, responsabile e diverso. Nella possibilità di scegliere, se e come generare una figlia/o, e non di subire la genitorialità come un destino, che spetterebbe dunque solo alle coppie fertili e eterosessuali, si è annidata una nuova qualità di scelta e desiderio di genitorialità. Questo allargamento dei confini e del senso della maternità ha contagiato tutto. È dunque difficile, in questa ottica, bollare il desiderio di una persona di essere padre o madre come un capriccio, o confondere la volontà forte di portare tale desiderio a compimento a ogni costo come la rivendicazione di un diritto.

Così come mai le femministe hanno confuso la loro battaglia per la possibilità di interrompere volontariamente una gravidanza con la rivendicazione di un diritto, è altrettanto vero che il desiderio di una figlia/o propria/o non può mai essere confuso inteso come la rivendicazione di un diritto, ma come l’affermazione di un desiderio responsabile e profondissimo che sta in uno spazio insondabile di ogni essere umano che lo prova e che lo assume con sufficiente forza per portarlo a compimento.

È un desiderio e una scelta fondamentale, che merita il più profondo rispetto, e le donne per prime dovrebbero saperlo molto bene e portarne testimonianza, non solo per loro stesse, ma per tutti.

Per quel che riguarda la donna che porta in grembo la figlia/o per altri, è una scelta che implica una comprensione sofferta perché permane in noi l’idea che sia una scelta sofferta. Molto si è scritto su questo, forse sapendone poco. In tutte le realtà in cui la GPA è legale e controllata, la salute e l’autodeterminazione della donna sono tutelate e garantite. Tuttavia non basta, lo sappiamo bene. Forse ci pare di poter dire che se la gravidanza è una delle esperienze di trasformazioni fisiche più invasive che esistano, essa potrebbe, nella donna che porta in sé la bambina/o che non riconosce come figlia/o e che non desidera, non comportare un attaccamento a quella creatura, né un dolore psicologico né un senso di violenta separazione al momento della sua nascita. Sembra impossibile pensarlo, così come, in modo rovesciato, sembra impossibile pensare a un’interruzione volontaria di gravidanza senza dramma, eppure, proprio in nome di quella prima e ultima parola, quel “si” necessario e che in questo caso non è mai stato pronunciato, in realtà pare possibile, e molte donne lo sanno anche se solo poche lo testimoniano. Senza quel “si” iniziale non c’è, e non ci sarà mai, maternità.

Non c’è dunque un investimento affettivo che si compie nel vuoto dell’attesa, quello spazio bianco dentro il quale ci si nutre di fantasie, di immaginazioni, si dà vita in sogno, in ipotesi e giochi segreti a una creatura che non si conosce e già si ama e ci si prepara ad accogliere. Questa attesa, obbligata e inoperosa, in cui cavalcano le fantasie, avviene nei genitori che desiderano e attendono il figlio o la figlia, simbolicamente. È in loro che si produce il terreno fertile, in cui nascono le immagini e i quadri della vita a venire.
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Re: Maternità surrogata.

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Rimane un’esperienza lunghissima e molto intensa, complessa, faticosa all’estremo, anche chimicamente talvolta gioiosa: una grande rivoluzione, insomma, la gravidanza. Una prova estrema, talvolta difficile, per la donna. Inutile negarlo. Infatti è una scelta che va fatta con molta prudenza e consapevolezza. Molte delle donne che la fanno sono già madri, la conoscono dunque bene. È una scelta che può essere motivata, nella maggior parte dei casi, dal bisogno. Ma molte altre scelte, molti altri lavori implicano immensa fatica e danni, cambiamenti, cedimenti del corpo, anche molto peggiori di questo. Anche a questi dunque bisognerebbe opporsi, o forse, più in generale, alle ingiustizie sociali tutte e alle diseguaglianze.

La discussione e il confronto su questo tema, seppure non di così stretta attualità quanto quello dell’approvazione del disegno di legge sulle unioni civili, minimo sindacale per cui tutti e tutte dovremmo strenuamente lottare, merita dunque tempo, prudenza, onestà intellettuale e confronto tra donne. Confronto aperto, tollerante. Perché se c’è una cosa che appare infinitamente più indegna per una donna della gestazioni per altri/e, è l’essere pensata da altre/i. Pensare per altre/i è un esercizio molto offensivo, che lede la dignità di coloro in nome delle quali ci si permette di pensare, e che le donne, le femministe, dovrebbero smettere di fare, pena non essere più nemmeno l’ombra di ciò che il femminismo annunciava di essere: uno spazio di libertà di parola, in cui i racconti di ciascuna erano già politica, in cui ciascuna potesse parlare di sé e del suo essere singolare e delle sue esperienze senza giudizi o prefiche di ogni genere che stessero in cattedra e negassero valore alla loro esperienza. Pensare per altre/i è peggio di tutto. Le donne non sono tutte vittime, sono sempre più libere e forti e diverse tre loro. E sono loro ad avere iniziato il cammino verso la libertà, di tutte e tutti.

La scelta e la responsabilità personale come unico criterio, senza né un Dio, né una Chiesa, né un ordine patriarcale, che dica cosa si può fare e cosa non si può fare, è un percorso faticoso e difficile, ma è l’unico che vale la pena intraprendere. Indietro non si torna. C’è un film documentario molto bello, che si chiama La vita è immensa e piena di pericoli, in cui un bambino, malato, dice, appunto, questa frase, che dà il titolo al film: «La vita è immensa e piena di pericoli, ma io la voglio vivere». Ecco, parafrasando quel bambino, possiamo dire che il cammino verso la libertà è immenso e pieno di pericoli, ma noi lo vogliamo vivere, insieme a tutti e tutte.
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