Maternità surrogata.
Inviato: 17 dic 2015, 11:54
Molti dei documenti che sono usciti in questi giorni, invocando il divieto della gestazione per altre/i (gpa), evocano donne sempre vittime, in paesi diversi tra loro ma tenuti insieme, in quei ragionamenti, dal fatto di essere “paesi poveri”. Ma la gestazione per altre/i, laddove è normata, non avviene così. Implica donne libere, che fanno una scelta consapevole, anche per motivi economici, certo, il che non significa che non sia una scelta. Una delle ragioni che dovrebbero far riflettere prima di invocare il divieto netto della gpa potrebbe essere anzi proprio la preoccupazione che tale divieto, mosso da un’idea di tutela e di rispetto dell’integrità delle persone, non rischi invece di ricacciare questa pratica nel mercato nero e produrre uno sfruttamento maggiore e incontrollato delle donne che la compiono.
È una scelta difficile da capire. Alcune hanno scritto che le fa inorridire, verbo pieno di pathos, che non dovrebbe avere cittadinanza in un dibattito pubblico intorno al legiferare. Molte cose possono fare inorridire ciascuna di noi soggettivamente, ma non per questo, in nome di tale inorridimento, possiamo pensare di farle vietare.
Per esempio, nello spazio dell’inorridimento, potrebbe trovare posto il fatto che una donna abbandoni le proprie figlie/i per andare a badare alle figlie/i di un’altra madre più ricca di lei all’altro capo del mondo.
Ma il punto sta, forse, non tanto nella quantità di possibile dolore o sfruttamento, ma nella sua qualità, che pone molte domande: Fino a che punto è possibile spostare i limiti del desiderio di essere padre o madre? Fino a che punto un desiderio può essere considerato un diritto? E, poi, quali sono i limiti di una persona umana? Che cosa li definisce? È possibile immaginare che il suo corpo sia altro da lei, che lei ne possa disporre, per sua scelta e anche a fronte di un guadagno, senza che ciò intacchi l’integrità della sua persona?
Sono domande immense, e le risposte forse sono ancora in parte introvabili, in modo assertivo e pieno di certezze.
L’allargamento del concetto di maternità, e, di conseguenza, di genitorialità, che si deve alle battaglie femministe, ha certamente portato cambiamenti epocali che ancora stiamo scoprendo con meraviglia. E chi non prova meraviglia al loro cospetto ma si avventa, scure in mano, a decretare ciò che nel loro solco sempre aperto e in movimento è lecito o non è lecito fare, quali sono i confini autorizzati del cambiamento, non solo oppone una stasi arbitraria quanto vana a qualcosa che ancora potentemente si muove e sempre si muoverà, ma forse ne tradisce lo spirito.
In effetti fondare la maternità non nel destino delle donne ma nella loro scelta, nel loro essere profondo, talentuoso, singolare e differente, nelle parole che le donne hanno trovato, pronunciato e gridato, prima fra tutte quel “si” o quel “no”, prima e ultima parola senza la quale non c’è maternità, aver allargato il materno a segno potente e ordinante del mondo, significa aver aperto una nuova strada che non riguarda solo le donne che scelgono di essere madri ma tutte le donne, anche coloro che non lo scelgono; perché sono donne, figlie di una madre, che finalmente conoscono, e nella quale si riconoscono: nella sua potenza simbolica, culturale e umana. Nello specchio della madre ogni donna può riconoscersi e riconoscere la propria storia, in una forma di allargamento di sé e di comprensione e intelligenza dell’altro/a da sé che le è propria, singolare e non ha eguali.
È una scelta difficile da capire. Alcune hanno scritto che le fa inorridire, verbo pieno di pathos, che non dovrebbe avere cittadinanza in un dibattito pubblico intorno al legiferare. Molte cose possono fare inorridire ciascuna di noi soggettivamente, ma non per questo, in nome di tale inorridimento, possiamo pensare di farle vietare.
Per esempio, nello spazio dell’inorridimento, potrebbe trovare posto il fatto che una donna abbandoni le proprie figlie/i per andare a badare alle figlie/i di un’altra madre più ricca di lei all’altro capo del mondo.
Ma il punto sta, forse, non tanto nella quantità di possibile dolore o sfruttamento, ma nella sua qualità, che pone molte domande: Fino a che punto è possibile spostare i limiti del desiderio di essere padre o madre? Fino a che punto un desiderio può essere considerato un diritto? E, poi, quali sono i limiti di una persona umana? Che cosa li definisce? È possibile immaginare che il suo corpo sia altro da lei, che lei ne possa disporre, per sua scelta e anche a fronte di un guadagno, senza che ciò intacchi l’integrità della sua persona?
Sono domande immense, e le risposte forse sono ancora in parte introvabili, in modo assertivo e pieno di certezze.
L’allargamento del concetto di maternità, e, di conseguenza, di genitorialità, che si deve alle battaglie femministe, ha certamente portato cambiamenti epocali che ancora stiamo scoprendo con meraviglia. E chi non prova meraviglia al loro cospetto ma si avventa, scure in mano, a decretare ciò che nel loro solco sempre aperto e in movimento è lecito o non è lecito fare, quali sono i confini autorizzati del cambiamento, non solo oppone una stasi arbitraria quanto vana a qualcosa che ancora potentemente si muove e sempre si muoverà, ma forse ne tradisce lo spirito.
In effetti fondare la maternità non nel destino delle donne ma nella loro scelta, nel loro essere profondo, talentuoso, singolare e differente, nelle parole che le donne hanno trovato, pronunciato e gridato, prima fra tutte quel “si” o quel “no”, prima e ultima parola senza la quale non c’è maternità, aver allargato il materno a segno potente e ordinante del mondo, significa aver aperto una nuova strada che non riguarda solo le donne che scelgono di essere madri ma tutte le donne, anche coloro che non lo scelgono; perché sono donne, figlie di una madre, che finalmente conoscono, e nella quale si riconoscono: nella sua potenza simbolica, culturale e umana. Nello specchio della madre ogni donna può riconoscersi e riconoscere la propria storia, in una forma di allargamento di sé e di comprensione e intelligenza dell’altro/a da sé che le è propria, singolare e non ha eguali.